La motivazione, la demotivazione e l’automotivazione: una loro lettura etica

di Luigi Adamuccio

Se l’esistenza dei motivatori istantanei rimane un mito, la presenza di tanti eccellenti demotivatori è invece una realtà conclamata, nello sport come nelle organizzazioni” (Pietro Trabucchi)

Creati una visione e non lasciare mai che l’ambiente, le credenze degli altri o i limiti determinati da ciò che è stato fatto in passato, possa determinare le tue decisioni” (Anthony Robbins)

Premessa

Sono tante le persone che, stanche di condizioni lavorative inaccettabili, insoddisfacenti e persino frustranti, si demotivano e persino decidono di licenziarsi, spesso anche dopo anni e anni di malessere.

Una grande forza centrifuga che allontana sempre più le persone dall’azienda, che le porta a fuggire da essa, generando, anche quando, seppur malvolentieri, in essa si resti, fenomeni come l’assenteismo, il vecchio e subdolo “soldiering”, ora ribattezzato in modo più moderno “quiet quitting”.

Un fenomeno sul quale le aziende devono riflettere, e per farlo è forse necessario che vengano capiti più in profondità i motivi che spingono la persone a queste scelte. I veri e più profondi motivi potrebbero sfuggire se l’analisi del sistema organizzativo aziendale continuasse a limitarsi ad aspetti economici e gestionali e non ci si spingesse verso una valutazione più attenta ed accurata anche delle determinanti del comportamento (organizzativo) delle persone in azienda.

Scrive Pietro Iacono Quarantino, psicologo del lavoro e delle organizzazioni, sul numero del 21 aprile 2022 di www.puntosicuro.it, quotidiano on line che si occupa di sicurezza sul lavoro, ambiente e security (1): “(…) emerge come le percezioni dei lavoratori e quelle dei datori di lavoro o manager non siano sempre allineate: non tutto ciò che secondo il management è importante per i dipendenti, è effettivamente ciò a cui i lavoratori danno importanza. L’allineamento si ha quando si parla di equilibrio tra tempo di vita e tempo di lavoro, della possibilità di prendersi cura della propria famiglia, dell’abbordabilità del carico di lavoro e del sentimento di coinvolgimento con il lavoro. I manager tengono invece a sottostimare l’importanza che per i loro dipendenti hanno fattori quali il sentirsi valorizzati dall’organizzazione e dai manager, il senso di appartenenza, le possibilità di carriera, la flessibilità dell’orario di lavoro e l’avere colleghi affidabili e con i quali instaurare relazioni gratificanti. Viceversa, tendono a sopravvalutare l’importanza dell’adeguatezza del compenso, del cercare altri lavori o essere contattati da altre aziende, della possibilità di lavorare da remoto e delle opportunità di sviluppo. Questi dati indicano che il management di alcune aziende tende a dare valore soprattutto agli aspetti transazionali del rapporto di lavoro (ad esempio il compenso) e non si accorge che per i lavoratori sono più importanti gli aspetti relazionali. Questa mancanza di congruenza è probabilmente aumentata in seguito alla pandemia, che ha fatto sì che le persone maturassero nuove aspettative nei confronti del lavoro, dell’azienda, dei capi, dei colleghi (…).”

Comprendere le cause e dotarsi degli strumenti idonei a fronteggiare questi fenomeni è la nuova sfida epocale che le aziende devono affrontare e superare per rendere le condizioni di lavoro il più possibile vicine alle attese dei lavoratori, costruendo luoghi, ambienti di lavoro più “human-centered”, più socialmente sostenibili e più soddisfacenti, ossia più a misura d’uomo in termini di sicurezza, di possibilità di crescita e di benessere fisico e psicologico.

Non demotivare i propri collaboratori e stimolare al massimo il loro rendimento, convincendoli a restare in azienda: è questo il lavoro dei manager, da subito, prima che sia troppo tardi!

Dare al tutto una lettura etica è un approccio ardito, ma teso a costruire le basi di organizzazioni aziendali che riconoscano pienamente la dignità della persona, in forza di quello che è, di quello che fa e di quello che potrebbe fare meglio, molto meglio se si facesse attenzione ad agire su talune specifiche leve e si operasse con maggiore equità.

Il lavoro permette all’uomo di esprimere se stesso e di realizzare la propria vocazione; è una dimensione fondamentale dell’esistenza umana, è “actus personae”2, un’espressione essenziale dell’essere persona. Se manca questa consapevolezza oppure si disconosce questa verità e la proprietà aziendale e il management si fanno fagocitare da una cultura aziendale e una visione che dà maggiore importanza all’organizzazione tecnica rispetto all’organizzazione umana, scioccamente si dissipano tante energie, tante risorse economico- sociali essenziali, nel lungo periodo, alla sopravvivenza di molte compagini. Così come, per altro verso, è da stigmatizzare il comportamento del singolo che nel lavoro si rifiuta di andare oltre ogni ostacolo, disimpegnandosi, partecipando in azienda passivamente. In entambi i casi prevale quella che per i greci era una delle peggiori qualità dell’uomo, la hýbris, ossia la perdita del senso della misura, l’esorbitanza dal giusto o da ciò che conviene a tutti.

E’ un caso che secondo una ricerca di Predictive Index, condotta nel 2019 interessando più di mille dipendenti di 13 diverse grandi aziende, per quasi il 30% degli intervistati il proprio manager mancava di “capacità di team building”, non riusciva, cioè, a creare un gruppo coeso pronto a dare il massimo?

Un’altra recente indagine condotta negli Stati Uniti dall’US Conference Board riferisce che una grossa percentuale di lavoratori non trova più motivazione e la metà di loro è insoddisfatta perché manca la possibilità di organizzare il lavoro con una certa autonomia, perché è quasi impossibile crescere e sviluppare nuove competenze o trovare il senso del lavoro che svolge.

Motivazione, soddisfazione e aspettative in azienda

Cosa ci aiuta tutti i giorni ad affrontare la nostra non proprio facile giornata lavorativa? Cosa ci fa mantenere la convinzione, nonostante tutte le complicazioni, di non aver, magari come reazione alle angherie, alle ingiustizie subite nel tempo, semplicemente scaldato una sedia per sbarcare un lunario non meritato?

Riflettere su questi temi e farsi delle domande è importante, soprattutto ora che le nuove generazioni sembrano mostrare un minore attaccamento all’azienda in cui prestano lavoro e le persone con maggiore anzianità di servizio hanno grosse difficoltà a mantenere le giuste motivazioni e il necessario entusiasmo, le une e l’altro motori di ogni nostra azione.

Le risposte cambiano certamente da persona a persona, anche perché le tecniche di motivazione nell’ambito del lavoro sono complesse, considerate le tante variabili umane, e non solo, coinvolte all’interno delle organizzazioni aziendali.

Il livello di prestazione, il rendimento di un individuo, a parità di condizioni di lavoro e di retribuzione, è legato alle sue capacità e soprattutto alla sua motivazione.

Nella Figura che segue3, come si può evincere, il soggetto Y, pur avendo un livello di capacità più basso di quello del soggetto X, se è fortemente motivato può anche raggiungere le stesse performance di quest’ultimo.

Questo è un primo passo.

Prima di andare avanti e prendere in esame cosa debbano fare titolari d’azienda e manager per poter eventualmente avere sempre performance elevate, all’altezza delle attese, indipendentemente dalle diverse capacità dei propri collaboratori, bisogna fare chiarezza sui principi della motivazione.

Altrimenti la più immediata e fuorviante deduzione che si trae è che basti agire sulla motivazione.

Ma come, ammesso che sia possibile, se le persone non hanno tutte le stesse strutture motivazionali e ciò che può essere allettante per Tizio può lasciare assolutamente indifferente Caio?

E uno degli errori più comuni nel cercare la motivazione altrui consiste nel proiettare sull’altro i nostri bisogni e non quelli suoi.

Per andare avanti nel ragionamento è necessario cercare di spiegare meglio sia la motivazione che i bisogni.

Trovo fondamentale, allo scopo, ricorrere alla ben nota piramide di Abraham Harold Maslow, lo psicologo comportamentista statunitense che, attingendo principalmente alla sua esperienza clinica, nel 1954 classificò tutti i bisogni umani in modo gerarchico, dall’ordine inferiore a quello superiore.

La teoria di Maslow rappresenta il più noto studio nel campo delle ricerche sulla motivazione, oggetto di molti approfondimenti, di successive integrazioni, ma anche di molte critiche.

Il pensiero dello psicologo statunitense Abraham Harold Maslow può essere così riassunto:

  • il comportamento dell’uomo è fortemente guidato dai bisogni;

  • la motivazione è la molla psicologica che porta l’uomo a soddisfare i bisogni;

  • ogni uomo è unico e irripetibile, mentre i bisogni sono comuni a tutti;

  • i bisogni sono strutturati secondo una gerarchia (rappresentata dai livelli di diverso colore della piramide)4;

  • una volta che un bisogno viene soddisfatto ne scaturisce un altro;

  • senza il soddisfacimento dei così detti “bisogni fondamentali” l’uomo non può svilupparsi compiutamente, sia dal punto di vista fisico che psicologico;

  • i due ordini di bisogni superiori (bisogni di stima o dell’ego e bisogni di autorealizzazione) aiutano l’uomo a sviluppare la sua personalità, nella crescita e nello sviluppo del suo potenziale.

La critica più significativa alla teoria della gerarchia dei bisogni di Maslow è che sia prevalentemente centrata sull’autodeterminazione dell’individuo, collegando le spinte motivazionali esclusivamente a fattori interni, personali, ed ignorando completamente l’interazione che pur esiste tra l’individuo e l’ambiente esterno, l’ambiente in cui egli è collocato e in cui si muove.

Il comportamento di una persona al lavoro, infatti, oltre che dalla sua struttura motivazionale, è determinato dai meccanismi d’incentivazione in essere in azienda e più in generale dalle caratteristiche del contesto organizzativo in cui quella determinata persona opera.

Basti osservare la figura appresso riportata, in cui tento di rappresentare sinteticamente lo schema del processo motivazione.

E’ evidente a tutti quanto sia difficile, in un ambiente di lavoro caratterizzato da tensioni o da una certa insoddisfazione, anche strisciante, avere collaboratori sempre motivati.

Se la percezione del bisogno da soddisfare è comunque, come rappresentato nella figura di cui sopra, un processo nella sua gran parte molto interiore, è possibile motivare una persona dall’esterno? In altre parole, è possibile motivare gli altri, come proclamano molti guru o mental coach?

Perché la motivazione sembrerebbe quasi trovare una sua spiegazione nella genetica del singolo individuo, il quale, quindi, si motiva da solo, ma mai può essere motivato da una terza persona. Il discorso, spesso pieno di tanta retorica, di un coach motivazionale o di un motivational speaker riesce anche a generare un alto livello di motivazione, la quale, però, dura molto poco. Tanta adrenalina, potremmo dire, e nell’altro, non un cambio significativo di comportamenti.

Una tesi che in qualche misura possiamo dire aveva già, tra i suoi sostenitori, ben quaranta anni fa, due autorevoli professori di psicologia presso l’Università statunitense di Rochester, nello Stato di New York: Edward L. Deci e Richard M. Ryan5, i quali nella definizione delle forme di attestazione che contribuiscono alla motivazione distinguevano due forme di riconoscimento:

  • i riconoscimenti intrinseci: sono le sensazione positive, interiori, che i collaboratore provano dall’aver fatto un ottimo lavoro, dall’aver raggiunto un obiettivo importante, dall’aver sviluppato nuove capacità, dal sentirsi presi in maggiore considerazione;

  • i riconoscimenti estrinseci: sono quelli che vengono dall’esterno, come un premio incentivante, una lettera di complimenti, un encomio di fronte ad altri colleghi. Sono tutti quei riconoscimenti che vengono dall’esterno e che semmai potenziano solo l’effetto positivo del riconoscimento intrinseco.

Una tesi che ha un fondo di verità riconosciuto non tanto dalla biologia, ma, per quello che più interessa ora noi, dai più moderni studi manageriali e che sembra trovare conferma nel ricercatore statunitense Jim Collins, autore di un libro, molto interessante perché ha una rigorosa base scientifica, intitolato Good To Great: Why Some Companies Make the Leap… and Others Don’t6, traducibile in italiano in “Da buono a eccezionale: perché alcune imprese fanno il salto… e le altre non lo fanno”, in cui vengono illustrate delle scoperte, per certi versi sensazionali, nel campo delle teoria organizzativa e, ancor più, del comportamento organizzativo.

Per chi si occupa di motivazione, affermare che è impossibile motivare una persona, sembra quasi la negazione di un dogma, una pericolosa eterodossia.

Peraltro, messa così, sembra quasi che si deresponsabilizzino i titolari d’impresa o i top manager nella motivazione del personale7; titolari d’impresa e management che, invece, in materia, hanno le loro colpe, contribuendo in molti casi, con la loro assoluta disattenzione, con le loro scelte, sbagliate e in molti casi non fondate essenzialmente sul merito, a spegnere ogni possibile scintilla motivazionale.

Chi ha posizioni lavorative di responsabilità, di coordinamento di altre persone, svolge un ruolo cruciale nella creazione di un ambiente che incoraggi l’impegno, l’impiego di tutta la buona volontà e di tutte le forze nello svolgimento di un compito.

I leader hanno, innanzitutto, la responsabilità di dare l’esempio positivo, di promuovere valori etici e incoraggiare solo comportamenti in linea con essi. Compiendo atti che si propongono come modelli da imitare, ispirano e spronano gli altri. Dare l’esempio è un approccio potente per motivare se stessi e gli altri in modo etico. Dando l’esempio indichiamo i comportamenti, i valori e principi che noi ci aspettiamo dagli altri. Per la creazione di una vera cultura dell’integrità, dell’onestà e della correttezza.

E’ pur vero che le scelte di carattere etico, così come la motivazione, non possono certo essere condizionate più di tanto dall’esterno, ma devono essere elaborate ed assunte, in perfetta coscienza, sulla base di principi e di valori personali, in cui si crede convintamente.

Ma come sosteneva più di duemila anni fa Lucio Anneo Seneca, ossia quello che è conosciuto anche come Seneca il giovane: “La via per imparare è lunga se si procede per regole, breve e efficace se si procede per esempi”.

Ognuno, quindi, vivendo in una specifica compagine con una peculiare cultura organizzativa, ma soprattutto facendo leva su se stesso, dovrebbe arrivare a mettere in atto, per sua libera scelta, comportamenti moralmente corretti, guidati da un’etica professionale che porta ad agire sempre con integrità, onestà e trasparenza, evitando qualsiasi forma di comportamento scorretto o disonesto.

L’assenteismo, l’insubordinazione, l’impegnarsi poco e svogliatamente, il lavoricchiare non sono comportamenti molto corretti. E quello della scarsa tensione positiva nel lavoro, oltre ad essere un problema individuale che riguarda la soddisfazione sul lavoro, l’appagamento professionale del singolo lavoratore, può avere ripercuotersi sull’intera azienda nel caso diventi un problema endemico.

Le cause, è vero, possono essere diverse, ma prima di cercare giustificazioni all’esterno, il problema va affrontato individualmente, lavorando su se stessi, sull’automotivazione.

Abbiamo parlato di livelli di motivazione che producono soddisfazione sul lavoro.

Motivazione e soddisfazione sono due termini che spesso vengono impropriamente usati come sinonimi contribuendo ad aumentare la confusione in un campo come quello del comportamento organizzativo, dove già ne regna a sufficienza.

Pertanto, per essere precisi, dovremmo state attenti a parlare di:

  • motivazione quando si analizzano le molle che fanno lavorare una persona;

  • soddisfazione solo quando si ragiona sull’appagamento che consegue ad una prestazione.

C’è, come è evidente, una relazione di causa ed effetto tra motivazione e soddisfazione.

La motivazione può, inoltre, essere estrinseca o intrinseca. Il salario, la promozione, gli incentivi e tutta una serie di vantaggi e benefici sono esempi di motivazione estrinseca; la soddisfazione sul lavoro, invece, è un tipo di motivazione tipicamente intrinseca: è il piacere in sé di lavorare e il senso di realizzazione dopo aver svolto un’attività in modo inappuntabile, perfetto.

Ma essere soddisfatti non vuol dire necessariamente essere anche motivati.

In effetti un collaboratore che svolge un lavoro che lo appaga, che gli consente di vivere bene, non è detto che sia motivato. Solo se uno percepisce che in un’organizzazione aziendale potrà crescere e migliorare si sentirà motivato. E se, poi, sarà adeguatamente gratificato sarà spinto a dare sempre il meglio di sé.

In azienda solo un alto tasso di motivazione garantisce un alto tasso di produttività.

Tra tutti i processi aziendali, la gestione dei propri collaboratori, soprattutto in un sistema di risorse finanziarie sempre più difficili da reperire, è di primaria importanza ed il mantenimento di alti livelli di motivazione del personale, in modo che lo stesso abbia una buona soddisfazione sul lavoro, è parte importante di una strategia che si va ad implementare se si vuole avere come obiettivo una maggiore produttività.

La motivazione è, in effetti, un vera forza trainante che, tuttavia, va correttamente gestita e continuamente alimentata.

Da qui la massima attenzione che va posta nella gestione dei propri collaboratori per non rischiare di comprometterne la motivazione, di minarne l’autostima, portandoli a non agire e a non impegnarsi, ossia ad un approccio, verso le cose da fare e le nuove opportunità, apatico, fiacco, neghittoso.

Da qui la responsabilità, per chi ha le leve decisionali e ricopre posti di coordinamento di altri colleghi, di creare un ambiente di lavoro gradevole, trasparente, in cui le persone possano esprimersi al massimo sapendo che:

  • si può contare su sistemi di valutazione basati esclusivamente sul riconoscimento del merito, senza alcun favoritismo;

  • non vengono discriminate sulla base del genere, della razza, dell’origine etnica, della religione, delle convinzioni personali, ecc.

Ma anche i lavoratori coordinati hanno il dovere di darsi da fare, di essere dei buoni collaboratori, dimostrando affidabilità e dedizione, per ottenere quella necessaria “employeeship”, attraverso un potenziamento della:

  • tenacia nel raggiungere degli obiettivi;

  • capacità di capire che se il proprio comportamento positivo promuove gli interessi dell’azienda alla fin fine, indirettamente, promuove anche i propri interessi, così come un proprio comportamento negativo li mina;

  • capacità di prendere iniziative autonome nel “problem solving” al di là di della valutazione degli altri, concentrandosi sull’autostima, sull’automotivazione e sopratutto sul beneficio che ne possono trarre le altre persone dal proprio lavoro.

Ma i lavoratori coordinati hanno il dovere di darsi da fare soprattutto per costruire una forte etica del lavoro che porta ad una condotta irreprensibile, talmente naturale da spingere una persona a svolgere un compito sempre al meglio delle proprie capacità, a prescindere dalle caratteristiche del contesto organizzativo in cui quella determinata persona opera.

L’etica del lavoro e l’automotivazione, che a mio personalissimo avviso della prima è una figlia, permettono ad un soggetto di svolgere con impegno e determinazione anche quelle attività con caratteristiche di ripetitività, che si ha poca voglia di affrontare, che annoiano o che, pur importanti, si sa benissimo verranno poco apprezzate da chi deve valutarci e offrirci programmi per il nostro sviluppo professionale.

Chi ha una forte etica del lavoro e, quindi, una forte automotivazione, affronta sempre ogni attività con un commit all’eccellenza, considerando il proprio lavoro come un qualcosa di cui essere fieri, intravedendo in questo sempre una sua finalità sociale ed etica.

Qualche manager questo lo sa bene e di questo ne abusa.

E’ quella motivazione intrinseca, è quel senso del lavoro o “sensemaking”, analizzato e descritto nel corso degli anni ’70 dal teorico dell’organizzazione Karl Edward Weick8 che permette di mantenere un atteggiamento e un’energia positiva nonostante i tanti ostacoli, le tante disfunzioni organizzative, le tante battute d’arresto. Ma quantunque alcuni collaboratori si impegnino sempre al massimo, altri hanno bisogno di alcuni segnali. Niente ammazza l’automotivazione e scoraggia l’etica del lavoro come sentirsi bloccati in un lavoro senza prospettive.

Solo per citare alcuni dati letti in un articolo9 di Massimo Servadio, Psicoterapeuta ad indirizzo sistemico relazionale, Psicologo del Lavoro e delle Organizzazioni, nonché Professore a contratto, in materia, presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università di Genova, il 50% dei lavoratori nel mondo non ama il proprio lavoro, più del 70% dei lavoratori si definisce stressato dall’ambiente del proprio ufficio di appartenenza, il 20% si sente completamente “disconnesso”, ovvero odia ogni minuto del suo tempo trascorso al lavoro, mentre solo il 30% si sente coinvolto e ispirato dalla propria carriera.

Un costo nascosto elevatissimo, se lo traduciamo in termini di abbassamento della produttività.

E in ottica di maggiore efficienza dei propri processi produttivi, come intervenire per far sì che ognuno maturi la volontà di dare il massimo?

Trovo fondamentale allo scopo la teoria dei fattori duali (o motivazione-mantenimento) di Frederick Herzberg.

L’analisi soddisfazione/insoddisfazione: considerazioni conclusive

Frederick Herzberg, un altro grande guru che si è impegnato tanto, come Maslow, alla costruzione delle fondamenta della motivazione, insieme ai suoi colleghi dello Psychological Service di Pittsburg, alla fine degli anni ‘60 del secolo scorso, ha avuto l’intuizione di capire che10:

  • i primi tre scalini della piramide di Maslow non producono motivazione, ma solo soddisfazione;

  • la motivazione nasce dalla soddisfazione dei bisogni di secondo livello, ma per arrivare ai bisogni di secondo livello (di stima, di prestigio e di autorealizzazione) occorre aver soddisfatto i bisogni di primo livello.

Da ciò deriva che i vertici aziendali debbano lavorare per garantire un ambiente di lavoro dove i bisogni primari siano soddisfatti11. Per ottenere ciò occorre:

  • creare condizioni ambientali (spazi, luminosità, rumori) favorevoli all’attività lavorativa;

  • agevolare rapporti gerarchici improntati al pieno rispetto dell’individuo e alla considerazione della sua personalità, senza che si debbano subire abusi e prese di posizioni autoritarie;

  • assicurare un trattamento equo, in linea con il mercato in cui si opera, con avanzamenti di carriera e retributivi, se meritati, tali da indurre la persone a lavorare con soddisfazione;

  • essere molto chiari e trasparenti sugli obiettivi individuali e sul sistema di valutazione delle prestazioni;

  • riconoscere le capacità dei singoli, permettendo agli stessi di applicarle concretamente;

  • definire compiti ben precisi, lasciando, tuttavia, una certa indipendenza e libertà sul lavoro;

  • favorire un buon livello di socialità tra colleghi di lavoro, attraverso lo sviluppo di un forte senso di collaborazione e teamwork;

  • far percepire ad ognuno il suo lavoro come importante per il successo, il prestigio e l’efficienza dell’azienda;

  • garantire un lavoro sicuro, inteso non solo come privo quanto più possibile di fattori di rischio che incidono sulla salute e l’incolumità fisica e come posto di lavoro stabile, ma anche come luogo di produzione in cui è sempre possibile sbagliare senza rischiare di essere mandati via.

Cosa c’è di più etico?

I bisogni primari, peraltro, come già detto, non sono motivanti, ma rappresentano le fondamenta dell’edificio motivazionale12. Siamo, pertanto, ancora a livello di soddisfazione e una prima idea di questo livello la forniscono le analisi del clima aziendale che periodicamente vengono condotte nelle diverse organizzazioni.

Anche perché una cosa è, come in qualche modo già spiegato, essere soddisfatti, altra cosa è essere motivati.

Motivazione e soddisfazione sono comunque concetti centrali parlando di sviluppo organizzativo e di comportamento organizzativo etico e sono strumenti importanti nelle mani del management per raggiungere migliori performance.

Motivazione e soddisfazione sono concetti strettamente collegati tra loro, ma ci sono delle differenze che devono necessariamente essere evidenziate e sottolineate, anche perché non poca è, come detto, la confusione.

Innanzitutto, correttamente, occorre parlare di “motivazione dei lavoratori (o dei dipendenti o dei collaboratori)” e di “soddisfazione sul lavoro”.

La motivazione regola i livelli di prestazione, garantendo un alto tasso di produttività. Può rendere più facilmente raggiungibili gli obiettivi, può far resistere meglio ai momenti di fatica, di stress e di delusione. Un collaboratore motivato è persino in grado di influenzare positivamente i propri colleghi.

A rendere meno nebulosa la differenza tra motivazione e soddisfazione ha senz’altro contribuito, come accennato, Frederick Herzberg, il quale non ha fatto altro che interpellare un campione rappresentativo di lavoratori a cui ha chiesto di indicare i fattori che determinavano il loro soddisfacimento al lavoro.

Ne è emerso un quadro che ha generato una serie di interessanti considerazioni che hanno portato Herzberg a distinguere, nel mondo del lavoro, “fattori igienici” da “fattori motivanti”.

Tra i “fattori igienici” rientrano: lo stipendio, l’ambiente lavorativo, la sicurezza, la possibilità di instaurare rapporti personali; tutti elementi, cioè, che riguardano le condizioni di lavoro, il contesto lavorativo ed in particolare l’ambiente fisico, l’ambiente sociale e la retribuzione. Secondo Herzberg i “fattori igienici” possono incidere sulla soddisfazione lavorativa, ma non sempre sulla motivazione. Così, per esempio, per un lavoratore ricevere ogni mese, puntualmente, lo stipendio non genera motivazione, perché è ciò che normalmente deve avvenire e che uno si aspetta (soprattutto se ha lavorato con impegno). Se questo, però, non dovesse avvenire la persona interessata sarebbe fortemente insoddisfatta.

I “fattori motivanti”, di contro, fanno riferimento al contenuto del lavoro e alla sua capacità di assicurare una crescita della personalità. I fattori motivanti di Herzberg sono molto simili, come abbiamo già avuto modo di dire, ai bisogni di livello più alto di Maslow.

Lavorare in un ambiente che fa perno sui fattori motivanti significa prevedere la possibilità di fare carriera sulla base del merito e non di altri fattori, di ottenere riconoscimenti e di raggiungere livelli di responsabilità e di autonomia sempre più alti.

In pratica, il lavoratore motivato è una risorsa dinamica, attiva, orientata a migliorare sempre la sua posizione e mai a fermarsi, anche quando è più che soddisfatto dello stipendio e dei risultati che ha raggiunto. Anche perché nessun dipendente potrà dirsi motivato, se discriminato o costretto a svolgere mansioni ripetitive, monotone e poco stimolanti.

La soddisfazione è il senso di appagamento per la prestazione fornita, quella sorta di compiacimento che viene dopo una galvanizzante prestazione.

La motivazione, invece, è l’energia e l’entusiasmo che ci spinge ad agire per soddisfare un bisogno; la motivazione sta prima della prestazione.

12 SANSAVINI CESARE, Leadership e gestione del cambiamento. Abilità manageriali per coinvolgere,

La gestione per obiettivi, la valutazione delle performance, il sistema premiante sono strumenti che, se correttamente impiegati, possono funzionare nella motivazione dei dipendenti, ma a condizione che si parta già, come detto, da un clima lavorativo positivo13.

Riprendendo, in chiusura, l’analisi condotta dallo Psicoterapeuta ad indirizzo sistemico relazionale e Psicologo del Lavoro e delle Organizzazioni, Massimo Servadio, nel suo articolo apparso sulla rivista on line “PuntoSicuro”14, e partendo da essa, tra le cause più frequenti di insoddisfazione e demotivazione può essere registrato:

  • l’eccessivo controllo dei superiori sul lavoro svolto dai collaboratori, quello che nella letteratura viene chiamato “micromanagement” e che diventa fattore generante solo frustrazione;

  • l’insicurezza lavorativa che influisce sulla salute, sia fisica che psicologica. Laddove non si arrivi a questo estremo, altri svantaggi derivanti dal senso di instabilità dell’impiego sono: – la minore disponibilità al cambiamento, alla generazione d’idee per il miglioramento della produttività; – la minore cooperazione e disponibilità ad accettare nuovi orientamenti professionali; – l’assunzione di atteggiamenti che possono danneggiare oltre misura l’azienda di appartenenza;

  • la mancanza di fiducia nella leadership aziendale, in conseguenza del fatto che le strutture organizzative sono spesso concepite secondo un’impostazione che rifletta una serie di supposizioni spesso errate: – la prima è che i manager saprebbero fare tutto al meglio; – la seconda è che non ci si dovrebbe fidare dei dipendenti, ritenendoli in qualche modo e misura molto meno bravi dei loro superiori. Una leadership, invece, in grado di creare un ambiente in cui le persone siano incentivate al lavoro, consapevole del valore aggiunto che può arrivare da ogni singola persona facente parte di un team, aumenta l’efficienza e l’efficacia aziendale, portando ad un maggiore apprezzamento dei capi sia sul lato professionale che personale;

  • la mancanza di equità, che porta a non essere giusti o imparziali nei confronti dei propri collaboratori. Il primo passo per cercare di essere equi è conoscere i propri collaboratori e le loro esigenze individuali. L’equità consiste nel dare a tutti le stesse opportunità, ma poi premiare chi davvero merita e non i propri favoriti, premiare chi ha una performance elevata e non chi è più fedele. Il collaboratore, per parte sua, invece, deve dimostrare cosa sa fare e che ce la mette tutta per poi avere il giusto riconosciuto. La mancanza di equità nelle valutazioni potrebbe, a lungo andare, creare continui ritardi sul lavoro o continue assenze, più o meno gravi omissioni nello svolgimento delle mansioni assegnate, rifiuti di vario tipo che fanno parte del clima lavorativo in cui una persona si ritrova immersa tutti i giorni;

  • una scarsa qualità delle comunicazione che tradisce un sistema di relazioni interno non coeso. Comunicare bene significa lavorare bene, perché se è vero che le prime persone che un’azienda deve soddisfare sono i clienti finali, altrettanto vero è che, prima ancora di soddisfare questi, un’impresa deve preoccuparsi di costruire un sistema di comunicazione efficace all’interno dell’azienda, per rendere i vari collaboratori più motivati e responsabilizzati, ossia fieri di appartenere una determinata compagine. Il tutto è innegabile che porti ad miglioramento del clima e dell’ambiente lavorativo;

  • la noia che porta il collaboratore a sentirsi sottostimato, frustato, scontento del proprio lavoro. Stiamo parlando della c.d. “sindrome del Boreout”. Molti di noi conoscono l’esistenza del c.d. “stress lavoro correlato”, definito dall’INAIL come lo “stress legato all’attività lavorativa che si manifesta quando le richieste dell’ambiente di lavoro superano la capacità del lavoratore di affrontarle, o controllarle”. Alcuni conoscono la collegata “sindrome del Burnout”. Quasi nessuno conosce la sindrome opposta a quella del Burnout, che viene definita, appunto, “sindrome del Boreout”. L’espressione deriva dal termine inglese bored” che significa annoiato. Mentre le conseguenze delle due sindromi sono pressoché simili, risultano opposte, invece, le cause da cui derivano: la sindrome del Burnout è causata prevalentemente dal troppo stress e dalle troppe richieste pressanti provenienti dall’ambiente lavorativo, la sindrome del Boreout deriva, all’opposto, da noia e insoddisfazione causate dalla scarse richieste provenienti dall’ambiente lavorativo.

Coerentemente con la teoria di Herzberg, ecco, infine, alcuni interventi che il management non può fare a meno di mettere in atto per incidere sulla demotivazione dei collaboratori15:

  • conferire maggiori responsabilità ai diversi ruoli;

  • favorire la crescita e lo sviluppo delle persone e delle loro competenze tramite programmi di formazione e sviluppo;

  • restituire feedback appropriati sulle attività svolte dai collaboratori, sia quando essi sono negativi, sia quando sono positivi;

  • definire “career paths” (percorsi di carriera) chiari, basati sul merito (la meritocrazia nel lavoro è uno dei valori aziendali più motivanti sia nell’attrazione di nuovi talenti che nel loro mantenimento in azienda);

  • coinvolgere le persone in progetti innovativi e sfidanti.

Sono tutti interventi sperimentati con successo in realtà imprenditoriali nelle quali il perseguimento della sostenibilità, soprattutto quella sociale, non è rimasto solo a livello di vuoto enunciato e ci si è preoccupati di non perdere in efficienza produttiva, soprattutto dove non si poteva puntare, per ragioni di carattere economico-finanziario, in modo molto più spinto sull’innovazione tecnologica.

Dove tutto questo avviene c’è un diffuso, connaturato, lungimirante comportamento etico che è parte integrante della cultura aziendale (fa parte degli aspetti soft, degli assunti taciti e così condivisi da essere trasmessi ai subalterni, ai colleghi, ai neoassunti).

Una cultura che costituisce la differenza sostanziale tra come si fanno le cose in un’azienda rispetto ad un’altra che etica non è o lo è solo apparentemente.

Note:

2 1 QUARANTINO PIETRO IACONO, “Uno sguardo sull’ondata di dimissioni che sta interessando le aziende”, in PuntoSicuro, 21 aprile 2022.

2 PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2004.

3 Figura adattata da TOSI Henry e PILATI Massimo, Managing Organizational Behavior, Edward Elgar, Northampton, 2012.

4 I bisogni primari o fisiologici sono relativi alla sopravvivenza e all’immediato benessere fisico (buone condizioni di lavoro e buona retribuzione).
I bisogni di sicurezza sono relativi alla sopravvivenza a medio-lungo termine, come avere un ambiente di vita e di lavoro stabile e sicuro.
I bisogni sociali o di appartenenza sono relativi all’operare in ambienti con relazioni favorevoli tra colleghi, con i collaboratori e i superiori.
I bisogni dell’ego o di stima sono relativi al riconoscimento di uno status sociale adeguato. Da un lato autostima, ossia fiducia in se stessi, a seguito dell’uso pieno delle proprie capacità, di concessione di un’ampia delega; dall’altro eterostima, ossia stima e rispetto da parte degli altri.
I bisogni di autorealizzazione sono relativi allo svolgimento di un lavoro che possa permettere un certo grado di creatività, che arricchisca la personalità e sviluppi pienamente il potenziale.

5 DECI EDWARD L. e RYAN RICHARD M., Intrinsic motivation and self determination in human behavior, Plenum Press, New York, 1985.

6 COLLINS JIM, Good To Great: Why Some Companies Make the Leap… and Others Don’t, Harper Collins, New York, 2001.

7 SANSAVINI CESARE, Leadership e gestione del cambiamento. Abilità manageriali per coinvolgere, motivare e guidare i propri collaboratori, Alpha Test, Milano, 2020.

8 WEICK KARL EDWARD, Senso e significato nell’organizzazione. Alla ricerca delle ambiguità e delle contraddizioni nei processi organizzativi, Raffaello Cortina Editore, Roma, 1997.

9 SERVADIO MASSIMO, “La demotivazione sul luogo di lavoro”, in PuntoSicuro, 1° giugno 2023.

10 FONTANA FRANCO, Il sistema organizzativo aziendale, Franco Angeli, Milano, 1997.

11 SANSAVINI CESARE, Leadership e gestione del cambiamento. Abilità manageriali per coinvolgere,

13 SANSAVINI CESARE, Leadership e gestione del cambiamento. Abilità manageriali per coinvolgere, motivare e guidare i propri collaboratori, opera citata.

14 SERVADIO MASSIMO, “La demotivazione sul luogo di lavoro”, articolo citato.

15 CIRELLA STEFANO, Teoria e pratica del Comportamento organizzativo, Carocci editore, Roma, 2015.

Condividi:

Altri Articoli Recenti

2044 Un minuto nel futuro

di Valter Carasso Anno 2044. Mi è stato concesso di viverci per un minuto. Solo un minuto di futuro vissuto. Ben diverso da un minuto

Torna a tutti gli Articoli