Vertical Farming: il green che piace a tutti ha un difetto

L’agricoltura verticale sostenibile consiste nella coltivazione su più ripiani, posti verticalmente uno sopra l’altro, all’interno di un edificio appositamente realizzato.
Ho avuto modo di studiarne uno proprio la scorsa settimana, per conto di un fondo di investimento dedicato agli investimenti sostenibili, quelli che operano secondo le linee guida ESG (Environment, Social, Governance) e che perseguono il “social impact” e non solo il rendimento finanziario.
Capita raramente di trovare iniziative così brillanti.
Il Vertical Farming (lo chiamano tutti in inglese, mi adeguo) è innanzi tutto un concetto totalmente Green: rispetto all’agricoltura tradizionale la superficie coltivata occupa ovviamente molto meno suolo, cosa non irrilevante in paese come il nostro ove lo sfruttamento delle superfici è andato oltre ogni limite, consuma molto meno acqua (che viene irrorata con parsimonia e continuamente depurata e riciclata), è in atmosfera filtrata e purificata e quindi non c’è bisogno di usare pesticidi né altri “additivi” chimici; non si è in balìa del brutto tempo, della grandine, delle bombe d’acqua né della siccità, la luce proviene da lampade alogene alimentate da una centrale a trigenerazione che non spreca né calore né energia elettrica, ovviamente generata da fonti rinnovabili; infine la produzione può avvenire pressoché ovunque, infatti il Vertical Farming lo costruiscono subito fuori Milano, un “chilometro zero” che significa meno camion per trasportare il prodotto e meno inquinamento. Insomma le piante crescono in un piccolo eden studiato tutto per loro, il ciclo produttivo è costruito esattamente come vorremmo fosse e per di più vicino a noi. Effetto Nimby al contrario.
Dietro questi risultati c’è ovviamente gente giovane, preparatissima, con ampie cognizioni in ambiti che vanno ben oltre la sola agricoltura, che ha viaggiato in vari Paesi del mondo e conosce come si è sviluppata la tecnologia che rende tutto questo possibile. Dei giovani di talento verso cui mi piace dare fiducia.
Dal punto di vista del consumatore il Vertical Farming presenta poi alcuni vantaggi quasi impensabili: il prodotto vien colto, lavato e confezionato sul posto subito fuori Milano e in poche ore è già pronto negli scaffali del supermercato, quindi un prodotto freschissimo che non ha viaggiato per ore o anche giorni, é quasi come avere il proprio orto; la produzione si svolge in un ambiente controllato sia come luce che come temperatura e volendo si può coltivare un ortaggio d’inverno esattamente come d’estate, in pratica si può coltivare fragole piuttosto che basilico tutto l’anno.
Ci sono poi dei vantaggi un po meno reclamizzati ma non meno importanti: la produzione subito fuori Milano comporta l’azzeramento non solo dei costi di trasporto ma soprattutto dell’intermediazione tra produttore e consumatore. Ben sappiamo che il prezzo che paghiamo come consumatori solo in modesta parte va al produttore mentre una quota rilevante viene assorbita da successivi passaggi del prodotto tra intermediari e trasportatori, ognuno dei quali applica il proprio ricarico. Un traffico con molto contante e pagamenti in nero, a volte gestito da organizzazioni criminose. Qui invece abbiamo un unico operatore che coltiva, impacchetta e può rifornire la distribuzione direttamente. Il prezzo diventa allora remunerativo per il coltivatore, l’attività diventa profittevole, la contabilità verificabile, diventa un settore nel quale c’è il controllo dei flussi monetari, tutto avviene a norma di legge, quindi un buon terreno anche per gli investitori finanziari. Che infatti festeggiano il Vertical Farming come uno dei settori più interessanti nel quali investire, con previsioni di sviluppo per i prossimi anni a dir poco sbalorditive.
Per quel che mi riguarda non ho avuto difficoltà a concludere che investire in questa attività è attraente per un fondo “ESG” che cura il social impact, ma lo sarebbe per qualunque investitore istituzionale. Un raro caso in cui si può effettuare un investimento Green (ma diciamo di più, addirittura “etico”) con l’aspettativa di fare anche un buon affare.
Il mio articoletto finisce qui: ho parlato dei temi cari ad Assoetica, ovvero al sito dove sto scrivendo, temi come il social impact, la responsabilità verso l’ambiente e le persone, lo sviluppo sostenibile. Il tutto calato in un’opera viva, concreta, un’azienda, un prodotto, cose vere, non solo parole e concetti.
Ma prima di spegnere il PC, sottovoce, a luce bassa, devo dire ancora una cosa. Già, il Vertical Farming sarà pure ecologico, sostenibile, green, a chilometro zero, equo e solidale, vegano, a social impact, ESG e trendy, sarà pure un business in crescita fortissima, sarà pure il massimo per gli investitori responsabili, ho dato l’ok al cliente che mi ha chiesto consiglio e non ho dubbi che avrà un futuro fenomenale.
Ma c’è qualcosa che non va.
Lo so, sbaglio.
Ma che dire, mi piacciono le fattorie lodigiane fatte a forma di U con i mattoni pieni a vista e detesto quell’enorme parallelepipedo che basta colorarlo di blu e metterci l’insegna gialla che è uguale all’Ikea; preferisco un campo coltivato con sopra il cielo a un grattacielo coltivato; mi piace aspettare giugno per mangiare qualche ciliegia e chisse se frega se non ho il basilico fresco in gennaio; mi piace che un’annata di nebbiolo sia migliore della precedente perché c’è stato più sole a settembre; mi piace lo slow food. Insomma, l’industrializzazione high-tech l’accetto negli smartphone ma non in tavola.
A me il Vertical Farming non mi piace.

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