Assoetica promuove la mostra Let The Bād Speak Sette artisti a Torino dall’Iran e dall’Afghanistan

Elmira Abolhasani, Hoda Afshar, Elyas Alavi, Hangama Amiri, Armin Amirian, Latifa Zafaar Attaii, Naseer Turkmani sono i sette artisti, provenienti dall’Iran e dall’Afghanistan, protagonisti della mostra collettiva Let the bād speak, a cura di Exo Art Lab, che sarà inaugurata il 7 ottobre a Torino presso la Fondazione 107 di via Sansovino 234. L’obiettivo di questa rappresentazione artistica è di instaurare un dialogo interculturale, che rimoduli le classiche categorie interpretative dello scenario mediorientale richiamando l’attenzione sugli eventi e sulle storie delle persone di quei luoghi tutt’altro che lontani.

“Bād”, in dari/farsi, significa “vento”. Il vento è anche, metaforicamente, la voce del popolo afghano e iraniano. Ogni anno, per centoventi giorni,  attraversa l’Afghanistan e l’altopiano iraniano soffiando impetuosamente attraverso le steppe. Un vento che raccoglie la voce dei popoli e le fa viaggiare oltre i confini, rappresentando – grazie alla sua intangibilità – una sorta di modello di sopravvivenza nell’incertezza e nella indeterminatezza. Il titolo della mostra riassume il desiderio di combattere ogni superficiale polarizzazione etica tra “bene” e “male”, la volontà di restituire la parola alla popolazione iraniana e afghana e la scelta di osservare la loro situazione al di là degli stereotipi, nella sua complessità, senza tralasciarne le contraddizioni.

I sette artisti, che saranno presenti alla mostra, dimostrano con le loro opere l’esistenza di inattese consonanze tra la scena afghano-iraniana e il resto del mondo. Attraverso temi come il rapporto tra identità personale e sradicamento dalla madrepatria, gli intrecci tra memoria culturale e biografie individuali, Let the bād speak – che durerà fino al 26 novembre – descrive paesaggi in cui ognuno può specchiarsi, riconoscersi e (ri)scoprirsi. Nella sola giornata del 7 ottobre, Fondazione 107 presenterà inoltre “Amen” di Federico Piccari, un progetto articolato in cui sculture in bronzo si interfacciano con dipinti, video, fotografia e installazioni. Le opere di Piccari, nelle loro molteplici tecniche, riconducono sempre a una realtà impenetrabile, che si cela dietro l’apparenza e la fragilità della dimensione umana contemporanea.

Gli ultimi due anni sono stati attraversati da una serie di gravi terremoti politici per l’Afghanistan e l’Iran. Terremoti che, notoriamente, sono il risultato di tensioni irrisolte, endemiche nell’area persiana da oltre tre decenni. Ma la connessione tra questi due paesi va ben oltre la loro attuale esperienza di turbolenze sociali: a partire dalla frontiera che condividono, lunga 921 km, hanno intessuto, nel corso dei secoli, un’intricata rete di interazioni, animate contemporaneamente da interessi economici e solidarietà religiosa, da differenze cultuali e alleanze militari, da ostilità e aiuti umanitari. È sufficiente pensare al 2022, quando i rifugiati afghani in cerca di asilo sul territorio iraniano ammontavano a 2,6 milioni. Tale numero esprime non soltanto la prossimità – culturale prima ancora che geografica – tra queste due popolazioni: esso ritrae al contempo la complessità di una relazione in cui l’eradicazione, le migrazioni forzate e la responsabilità morale di offrire ospitalità si mescolano inevitabilmente con questioni legate ad accordi diplomatici, stabilità interna, giochi di potere ed equilibri geopolitici. Una complessità che rimane incompresa e inafferrabile dalla maggior parte delle narrazioni mediatiche internazionali, concentrate a trasmettere uno scenario astratto e schematicamente polarizzato. L’immagine emergente è sempre priva di colori altri dalle tinte cupe del fondamentalismo religioso, della guerra e del terrorismo. 

Let the Bād Speak mira a proporre una visione alternativa, che destruttura le categorie interpretative classiche riportando l’attenzione sugli eventi e le storie personali di coloro che appartengono a queste realtà. “Bād”, in dari/farsi, significa “vento”. Il vento è anche, metaforicamente, la voce del popolo afghano e iraniano. Ogni anno, per 120 giorni, visita l’Afghanistan e l’altopiano iraniano ululando impetuosamente attraverso le loro steppe. Il vento può raccogliere storie, facendole viaggiare oltre i confini o spazzandole via. Con la sua essenza intangibile, incarna la transitorietà e, tuttavia, è la migliore guida nell’insegnare come sopravvivere nell’incertezza e nell’impermanenza. Il nostro titolo – facendo appello a una fortunata assonanza con la parola inglese “bad” – vuole riassumere il nostro desiderio di combattere ogni polarizzazione etica superficiale tra il bene e il male, la nostra volontà di restituire la parola alla popolazione iraniana e afghana e la nostra disponibilità ad osservare la loro situazione al di là degli stereotipi, nella sua variegata molteplicità, senza ometterne le più sorprendenti contraddizioni.

Attraverso una varietà di media, i nostri artisti – tutti di nazionalità afghana e iraniana – ripristinano l’interesse verso un insieme di prospettive troppo spesso trascurate.

Naseer Turkmani, con i suoi scatti in bianco e nero, abbraccia delicatamente i panorami del suo Afghanistan, raccontando, senza tradirlo, il paradosso secondo cui, in un paese sfigurato dalla guerra, montagne e cieli rimangono belli. Nella sua serie The Real Joy of Peace, la neve regala alla terra il suo silenzioso candore, non fungendo da invernale velo di morte, quanto più da promessa sussurrata di una nuova fioritura.

La visual artist Hazara Latifa Zafar Attaii solleva il suo personale grido di dolore per il genocidio del proprio popolo attraverso una voce dal cromatismo sovversivo. La sua installazione A Thousand Individuals mostra un insieme di fili rosa, gialli, blu, rossi e verdi pazientemente cuciti a coprire i volti di mille foto di persone Hazara stampate in formato passaporto. Esponendo la disperazione per la pulizia etnica della sua gente attraverso i colori più vivaci e vitali, il lavoro di Latifa disorienta il pubblico assuefatto ai toni scuri, divenendo contemporaneamente un compassionevole sudario, una rappresentazione tangibile dell’oblio e un’indelebile testimonianza del diritto di ciascun individuo a esistere. 

La rivendicazione di questo diritto essenziale, intesa quale fondamento universale dell’umanità e ultima chiamata per preservarla, è ciò che la serie fotografica hICEstory di Armin Amirian scopre nella forma di una fiamma riaccesasi dentro gli sguardi delle donne iraniane, nonché nella veste di una sottile aura che avvolge l’intera sua collezione di paesaggi urbani e sociali di Teheran. Attraverso una tecnica di post-produzione che gli permette di restituire un effetto congelato alle sue fotografie, Armin impiega la metafora del ghiaccio – capace di condensare sia un riferimento alla quiete superficiale dell’acqua solidificatasi, sia alla ribollente pressione di quella liquida a essa sottostante – per riassumere le articolate dinamiche della recente storia sociopolitica del suo paese.

Hangama Amiri rinviene il medesimo ruggente desiderio di riconoscimento nella Kabul dei suoi ricordi d’infanzia, raccogliendo pazientemente germogli di libera espressione tra le sue strade e i suoi vicoli più ordinari. Cucendo insieme pezzi di tessuto con diverse texture e provenienze, Hangama crea morbidi mosaici immersivi che ritraggono scorci della sua città natale – tra cui un salone per acconciature, un poster che celebra una giocatrice di calcio afghana e un negozio di manicure che pubblicizza lo smalto rosso – dimostrando come i cambiamenti sociali siano portati avanti non da individui straordinari o eventi dirompenti, ma da un impegno quotidiano e umile in piccole rivoluzioni.

 

La memoria del profumo della madrepatria permea anche la poetica di Elyas Alavi. La separazione dall’Afghanistan in tenera età conduce la sua sensibilità artistica e poetica a interrogarsi con coraggio – senza timore di farle tremare – sulle radici del rapporto con il suo paese, nonché sul concetto stesso di casa. Una serie di neon, che sintetizza perfettamente l’attenzione di Elyas per il potere visivo del linguaggio, accende nei visitatori una riflessione sul dislocamento e sull’identità, sulla geografia fisica e sulle intime coordinate della psiche.

 

 

Attraverso le sue mani, che danzano con grazia lungo le fragilità del vetro, la scultrice e visual artist Elmira Abolhassani dischiude nuove finestre sulle trasparenze e sulle opacità tra il sé e l’altro. Apprendendo dalle tradizionali piscine iraniane che l’acqua può portare frammenti di cielo sulla terra, Elmira trova nei riflessi del vetro un nido per riflettere su distanza e prossimità. Nelle sue opere d’arte, le crepe diventano porte per uno fertile scambio con l’esterno e gli specchi si offrono quali occasioni per intravedere tracce familiari nella più radicale estraneità.

 

 

 

Hoda Afshar restituisce e amplifica la nota di fondo che risuona nel corso di tutta la mostra. La sua video arte Speak the Wind narra del melting pot culturale delle isole sullo Stretto di Hormuz, al largo della costa meridionale dell’Iran, raffigurando i loro culti e credenze tradizionali sul vento. Nel lavoro di Hoda, il vento si rivela in tutta la sua essenza ancipite e non polarizzabile: sia come una forza naturale intimidatoria che è necessario ingraziarsi, sia come un’invisibile voce spirituale, che collega generazioni e popolazioni al di là di qualsiasi differenza etnica. Il vento di Hoda tramanda il segreto dell’ospitalità: atteso con le sue folate e, tuttavia, sempre portatore di un incancellabile grado di spaesamento, chiede di aprirsi all’ignoto. Con il suo tocco silenzioso, incorpora gli aromi più lontani, conciliandoli in una fragranza inedita e imprevedibile. Con la sua nobile fierezza, non accetta alcuna barriera o recinto prestabilito, ma ammette di costruire un terreno d’incontro soltanto attraverso un progressivo e instancabile dialogo con coloro a cui regala una sua visita.

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