L’importanza della partecipazione in un’aula di formazione, nel lavoro d’ufficio o nel lavoro di fabbrica

di Luigi Adamuccio

 

“L’impegno individuale in uno sforzo collettivo, di gruppo, ossia la piena partecipazione attiva, è quello che fa funzionare un team, un’azienda, una società, una civiltà” diceva Vince Lombardi, un allenatore di successo di football americano del secolo scorso.

 

Un’affermazione inconfutabile, se pensiamo che la mancata partecipazione, il disinteresse per quello che ci accede intorno focalizza maggiormente la nostra attenzione su noi stessi, sfociando il tutto in un individualismo più o meno sfrenato, in un antagonismo dove nessuno è compagno di strada, ma avversario, rivale dell’altro.

 

Per ottenere la partecipazione sono necessarie due precondizioni: l’ascolto (tema del precedente incontro serale di Assoetica) e la comprensione del senso.

 

Se non ascolto con attenzione e non comprendo il senso di quello che mi viene proposto, di quello che mi accade intorno è più difficile che io partecipi, almeno in maniera attiva e propositiva, in maniera convinta.

 

All’ascolto deve seguire la comprensione del senso nella doppia accezione:

 

  • di motivazione di fondo, di valore che viene dato alle azioni che si compiono;
  • di direzione, orientamento, obiettivo verso il quale ci si muove.

 

E se ci focalizziamo sulla formazione, per essere strumento di vero cambiamento, che abbia effetti duraturi nel tempo, deve promuovere una stimolante interattività, una partecipazione che consenta un aperto scambio di vedute, un’attenta analisi dei fatti, un’approfondita indagine che non si fermi ad una mera enunciazione unidirezionale di modelli preconfezionati o paradigmi. Anche perché un’aula di formazione, come un’azienda o una qualsiasi organizzazione è un “luogo cognitivo sociale” al cui interno si creano dinamiche non meno importanti dei processi produttivi in senso stretto.

 

La partecipazione è, in effetti, il tratto comune tra i processi cognitivi e quelli produttivi, che in azienda (e in ogni altra organizzazione) permettono di conseguire un fine: la creazione di valore da condividere, la capitalizzazione di risorse.

 

E così uscendo dall’ambito formativo e traslando la parola “partecipazione” nelle imprese, nel mondo del lavoro, possiamo senza tema di smentita affermare che una maggiore partecipazione dei lavoratori alla vita dell’impresa permetterebbe di dare finalmente piena attuazione alla carta costituzionale che all’art. 46[1] promuove la partecipazione dei lavoratori nei loro luoghi di lavoro.

 

Un tema importante che ora, anche in Italia, sta registrando una rinverdita attualità, tornando al centro del dibattito delle forze politiche e sociali.

 

Un’azienda, a ben vedere, non è altro, poi, che un gruppo di singoli individui funzionalmente uniti per raggiungere un fine. Lo sforzo imprenditoriale, sia in aziende piccole che medie o grandi, perché porti frutti duraturi comporta necessariamente la disponibilità di lavoratori coinvolti e motivati.

 

Quel “capitale umano” che se adeguatamente valorizzato diventa più imprenditivo, si caratterizza per uno spirito più intraprenditoriale e che, quindi, diventa più produttivo.

 

Tutte condizioni che si realizzano se si riesce a far vivere l’azienda, a tutto il personale, veramente come “costruzione comune”, come “comunità partecipata” in cui ognuno ha una parte attiva, si assume delle responsabilità, partecipi con il suo piccolo contributo per il bene suo, ma anche di tutti gli altri che fanno parte di quell’organizzazione.

 

Il tutto è efficamente e brillantemente sintetizzato da Papa Giovanni XXIII, più di cinquanta anni fa, nell’enciclica “Mater et Magistra”: “Si deve tendere a che l’impresa divenga una comunità di persone nelle relazioni, nelle funzioni e nella posizione di tutti i suoi soggetti. Ciò esige che i rapporti tra gli imprenditori e i dirigenti da una parte e i prestatori d’opera dall’altra, siano improntati a rispetto, a stima, a comprensione, a leale ed attiva collaborazione ed interessamento come ad opera comune, e che il lavoro sia concepito e vissuto da tutti i membri dell’impresa oltre che come fonte di reddito, anche come adempimento di un dovere e prestazione di un servizio. Ciò importa pure che i lavoratori possano far sentire la loro voce e addurre il loro apporto all’efficiente funzionamento dell’impresa e al suo sviluppo. (…) Una concezione umana dell’impresa deve senza dubbio salvaguardare l’autorità e la necessaria efficienza della unità di direzione; ma non può ridurre i suoi collaboratori di ogni giorno al rango di semplici, silenziosi esecutori, senza alcuna possibilità di far valere la loro esperienza, interamente passivi nei riguardi di decisioni che dirigono la loro attività”.

 

E quando si parla di “intraprenditorialità”, di “entrepreneurship” non si sta parlando di null’altro se non di quella ”leale ed attiva collaborazione” e di quell’“interessamento come ad opera comune” di cui alla su citata enciclica. In questo senso sarà interessante lo sguardo che Assoetica sta dando nelle così dette “imprese rigenerate”, risultato dell’operazione di acquisto di una società ad opera dei dipendenti dell’impresa stessa; operazione detta anche “employee buyout” o “workers buyout”.

 

Ecco, di tutto questo e di altro ancora converseremo insieme nell’incontro di Assoetica, in programma il 10 febbraio a sera sull’importanza della partecipazione, al quale vi diamo appuntamento. Ospite speciale della serata Cristina Ghiringhello, CEO di Confindustria Canavese (Torino) e CEO del Ciac, scuola professionale e formazione continua per adulti.

 

[1] L’art. 46 delle Costituzione così recita: “Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende”.

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