Creare valore. Ma per chi?

Di Francesco Varanini

 

Un amico mi ha scritto a proposito del  contributo pubblicato qui su Bloom il 19 aprile, con il titolo Tu quanto guadagni? Argomentavo a proposito di come la forbice retributiva tra manager di vertice e lavoratori sia spesso tanto elevata da generare demotivazione nei lavoratori, in particolare quando ai lavoratori vengono chiesti sempre nuovi sacrifici.
Il mio amico si dichiara a favore di una assoluta trasparenza: è giusto che le retribuzioni dei manager siano note a tutti. Mi scrive di non essere però d’accordo nella sostanza. Mi dice che a suo modo di vedere il problema non sta nel divario tra le retribuzioni dei manager e le retribuzioni dei lavoratori, sta nel fatto che spesso si pagano, a tutti, sia manager che lavoratori, premi non collegati ai risultati.
Il mio amico sostiene che ognuno dovrebbe essere remunerato in base al valore creato. Non posso non essere d’accordo. Resta il problema di come misurare il valore creato da ognuno. Resta anche, direi, un problema più grave: la definizione del ‘valore’ non è scontata. Dobbiamo allora tornare ad interrogarci su ‘cosa è il valore’. Dobbiamo chiederci: ‘valore per chi?’ E dobbiamo anche chiederci: valore rilevato in base a quale metrica?
Ciò che appare ‘valore’ ai lavoratori è una cosa. Ciò che appare ‘valore’ all’investitore finanziario è un’altra. Il manager di vertice è troppo spesso pagato per come ‘crea valore’ all’investitore finanziario. L’investitore finanziario chiede profitti e alto rendimento del titolo azionario. Questo è un modo del tutto legittimo di intendere il ‘valore creato’. Ma si sa anche che, guardando le cose in questo modo, si può finire con privilegiare il risultato di breve periodo a scapito degli investimenti e della vita futura dell’impresa.
Anche in questo sta la forbice, la divaricazione: ciò che agli occhi dell’investire finanziario appare ‘creazione di valore’, agli occhi del lavoratore appare ‘estrazione di valore’. Ciò che agli occhi dell’investitore finanziario appare arricchimento, agli occhi del lavoratore appare come impoverimento dell’impresa in cui lavora, peggioramento delle proprie prospettive future.
Difficile tenere in equilibrio i due punti di vista. Difficile, per il Direttore del Personale, mantenere alta la motivazione dei lavoratori in una impresa le cui strategie appaiono ai lavoratori incomprensibili, contraddittorie, o troppo ingiuste.
Qualche giorno fa un Direttore del Personale mi parlava proprio di questa difficoltà. Immaginate una impresa che in anni non lontani ha esordito con un ambizioso piano industriale. Un piano industriale forse irrealistico, ma ben costruito, tanto da essere preso sul serio dal mercato finanziario. Dal piano industriale sono discese grandiosi progetti riguardanti le persone: assunzioni, piani di formazione e di sviluppo. E’ accaduto però che, prima ancora che questi piani fossero portati a termine, venisse invertita la rotta: all’ambizioso piano industriale si sostituiscono strategie di downsizing, outsourcing, riduzione degli organici.
Il Direttore del Personale, chiamato a costruire una nuova cultura con lo sguardo aperto al futuro, si trova ora di fronte ad una situazione paradossale: più ha fatto bene il suo lavoro, motivando le persone, portandole a credere nel grande progetto, più ha reso difficile ora il suo lavoro. Più le persone sono spinte a guardare avanti, più pesante sarà la demotivazione, quando l’orizzonte promesso scompare.
Eppure il manager non può tirarsi indietro. Il manager, anche nella nuova situazione, in ogni nuova inattesa situazione, dovrà portare risultati. Ma qui, appunto, ritorna la domanda. Portare risultati per chi. Possiamo chiederci cosa significhi aver ‘creato valore’ nel caso che ho sommariamente esposto. Un conto è aver ‘creato valore’ per gli investitori, tagliando rapidamente i costi. Un conto è aver ‘creato valore’ anche per le persone costrette a vivere la difficile situazione.
Perché, alla fin fine, essere manager è essere responsabili. Il senso di responsabilità si manifesta nel farsi carico anche di compiti che, se avessimo potuto scegliere, avremmo evitato. E allo stesso tempo il senso di responsabilità si manifesta nel fare il possibile per far valere, anche nel quadro di condizioni avverse, il proprio punto di vista. E ancora: il senso di responsabilità del manager si manifesta nel considerarsi co-autori delle scelte del management a cui apparteniamo. Un manager non si chiama mai fuori.
Per questo mi ha particolarmente impressionato una situazione che mi è capitato di osservare nei giorni scorsi. I manager di vertice di una impresa erano riuniti insieme. Si ragionava su come uscire da una situazione difficile. Ognuno dava la sua lettura del passato, e formulava le proprie proposte per una gestione futura, cercando di approfittare del necessario momento di svolta per imporre la propria leadership. Su una cosa tutti erano d’accordo. Erano d’accordo nel dire ‘io non sono responsabile di quello che è successo’. Eppure tutti facevano parte del gruppo dirigente anche ieri. Un manager che non sa farsi carico del passato non è in grado di creare valore.

Questo testo appare come Editoriale sul numero 96, maggio 2014, di Persone & Conoscenze.

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