Il coraggio del bene e la speranza della gratitudine

 

di Francesco Varanini

Il valore si misura in denaro o con altre metriche. Il lavoro ben fatto si guadagna compenso fondato sulla gratitudine.

Dobbiamo tornare a guardare a questa basilare diversità: valore vs. bene.

Siamo abituati a misurare il nostro stesso lavoro in base al suo valore. Consideriamo importante -per noi stessi, per le organizzazioni per le quali lavoriamo, per il nostro paese, per l’intero mondo- la creazione del valore. In ciò, c’è sicuramente qualcosa di giusto. Ben più grave, distruttivo, è porre l’accento, anziché sulla ‘creazione del valore’, sull”estrazione del valore’. Un’impresa che ha come scopo fare automobili, e che fa automobili di qualità, crea valore. Un’impresa del settore automobilistico che si disinteressa del fare automobili di qualità e si limita a misurarsi sull’andamento dei propri profitti o del titolo il borsa, sta in realtà ‘estraendo valore’. Si impoverisce l’azienda per portare la ricchezza altrove.

Ma in ogni caso, anche se si guarda al’creare valore’, dobbiamo infine ammettere che il concetto stesso di ‘valore’ è fuorviante. Non ci permette di cogliere il senso profondo del produrre, del lavorare, dell’agire.

Con l’Illuminismo, i filosofi hanno smesso di parlare di etica e di morale come ricerca del bene, e sempre più invece hanno cominciato a parlare invece di ciò che aveva valore.

Possiamo però anche ricordare che fino alla fine del Diciannovesimo Secolo l’economia non era che un ramo, una disciplina parziale che aveva senso solo all’interno di quello che veniva considerato il vero ambito degno di attenzione: la filosofia morale.

Oggi ritualmente citiamo Adam Smith per ciò che scrive nella Ricchezza delle Nazioni (1776). Facciamo di lui il portabandiera dell’interesse economico e del valore. E’ vero che è lui che scrive “solo a partire dall’interesse del fornaio a venderti il pane avrai il tuo pane quotidiano”. Ma dimentichiamo che Smith scriveva tutto questo in un libro, appunto La Ricchezza delle Nazioni, che riguardava un ambito delimitato, il comportamento ‘economico’ -che non è che una parte del comportamento ‘morale’. E dimentichiamo anche che la nota frase di Smith riguarda un solo aspetto dell’economia: lo scambio. Mentre ovviamente Smith ammette che il quadro economico comprende, oltre allo scambio, altri aspetti: la produzione e la distribuzione.

Sopratutto dimentichiamo, usando Smith in questa maniera, che per lui l’opera importante, l’opera della vita non era la Ricchezza delle Nazioni, ma la Teoria dei sentimenti morali,opera accompagna Smith lungo l’arco dell’intera esistenza. La prima edizione è del 1759, quando Smith ha trentasei anni, l’ultima del 1790, l’anno della morte. Dove parla esplicitamente di bontà, generosità, senso civico.
Il centro dell’attenzione è la simpatia, per Smith l’immedesimazione nelle passioni e nei sentimenti altrui, la capacità di mettersi al posto dell’altro e di comprenderne i sentimenti.

Ricordiamo che, alla luce dell’etimologia, il bello, il bene e il buono sono la stessa cosa. Belloè un diminutivo di buonobene è un avverbio derivato da buono: significa ‘in modo buono’. La versione arcaica del latino bonus è duenos.Il senso di buono sta nella radice indoeuropea du, da cui  anche il sanscrito duvas: ‘onore’, ‘rispetto’. Il suffisso -eno- indica il participio. E dunque duenusbonus, buonosignificano: ‘dotato di doni e di virtù”. (Possiamo anche ricordare come i tre concetti, bello, bene e buono, che in italiano finisco per apparire separati l’uno dall’altro, ci riappaiono fusi nell’inglese good).

La bontà è la statura morale della persona. Dalla persona la bontà si trasferisce al processo, all’agire, si manifesta come bene. E’ visibile -come bellezza– nella persona così come nell’opera.

Il bene è un gesto gratuito, un dono, nessun può obbligarci a lavorare bene. Il bene è assoluto: non c’è metrica che possa misurarlo, non c’è legge o sistema di qualità che possa definirlo, non c’è sistema di controllo che possa misurarlo. Eppure ognuno di noi sa se ha lavorato bene. E sopratutto sappiamo che il bene c’è laddove il nostro operato si è meritato la gratitudine degli altri.

Ora, di fronte ad un mercato che appare sempre più insensato e incapace di far incontrare domanda e offerta, non bastano facili ricette liberiste. Non basta più leggere i comportamenti umani in base all’utilitarismo. Possiamo, dobbiamo tornare a parlare del bene, del bello e del buonoBene comunebellezzabontà: ci vergogniamo forse ad usare queste parole? Ci sembrano troppo lontane dal business, dal management, dall’economia e dalla finanza, dalla creazione e dall’estrazione del valore?

Eppure ciò che possiamo fare, anche nelle condizioni estreme, anche quando ci è impossibile fare altro, è lavorare bene, comportarci bene. Il bene si oppone al valore. Il bene si fonda su un nostro atteggiamento, il valore è una astratta misura. E l’astratta misura del valore serve, in fondo, solo a chi vuole assoggettarci a valutazioni per noi punitive. E’ la misura è che serve a chi vuole ‘estrarre valore’.

Il bene, fonte di gratitudine, ci porta invece ad intendere il mercato come reciproco scambio di doni. Possiamo invidiare chi è più capace di ingannare e approfittare delle situazioni e delle debolezze dell’altro. Ma chi gode veramente di reputazione è la persona buona.

Qualche fonte interessante:
Adam Smith, The Theory of Moral Sentiments, 1759, …, 1790
Kitaro Nishida, 善の研究, Zen no kenkyū, An Inquiry into the Good, Uno studio sul bene, 1911
Marcel Mauss, Essai sur le don. Forme et raison de l’échange dans les sociétés archaïques
, 1925.
Ivan Illich, The Rivers North of the Future
, 2005.
Più precisi riferimenti all’etimologia si trovano in Francesco Varanini, Le parole del manager, 2006 e  Nuove parole del manager, 2012.

Di questi temi parleremo nell’incontro: La formazione come gratuità, 13 giugno 2013, Casa di Vetro, via Sanfelice, 3, Milano, ore 17. Avrei anche potuto intitolare l’incontro: Formazione alla gratuità.

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