L’ascolto come azione etica

L'ascolto come azione etica
L'ascolto come azione etica

di Matteo Fantoni
11 novembre 2022

Come Assoetica abbiamo interesse a sottolineare le dimensioni dell’agire morale. Da questo punto di vista è interessante provare a considerare quale possa essere lo status etico dell’ascolto. Infatti, si può considerare l’ascolto come pura passività, come una sorta di inazione. Per questo privo del senso etico che di solito è riservato alle azioni o alle scelte, come fanno molti autori nel filone analitico della filosofia morale o come farebbe chi ha un approccio esistenzialista.

Iris Murdoch, filosofa e romanziera, riprende questa discussione nel saggio “l’idea di perfezione” del 1962 (ripubblicato in “Esistenzialisti e Mistici, il Saggiatore). La sua tesi è rivalutare la vita interiore e l’attenzione – lo sguardo dedicato agli altri, in qualche modo riconducibile all’ascolto – come azione etica e come componente essenziale dell’etica – polemizzando con i suoi contemporanei che vedevano il dominio dell’etica ristretta solo agli atti pubblici, osservabili.

Iris Murdoch forse è più conosciuta come autrice di romanzi. Proprio di recente due suoi libri sono stati ri-pubblicati recentemente dal Saggiatore: “L’incantatore e “Una testa tagliata”. Meno nota la sua attività come filosofa.  Ha fatto parte di un gruppo di quattro amiche (Elizabeth Anscombe, Mary Midgley, Philippa Foot, e Iris Murdoch) che si sono trovate a Oxford prima della Seconda Guerra Mondiale e che hanno dato vita a una diversa visione dell’etica, contrapponendosi al comportamentismo della filosofia analitica di questi anni e ripartendo da una rilettura di Platone e Aristotele. Un libro dell’’Oxford University Press, “The women are up to something”, di Benjamin J. B. Lipscomb, pubblicato quest’anno ha riscoperto il valore della riflessione delle quattro.

Iris Murdoch lancia il tema di una specifica visione (visione nel senso di vedere) morale, di una capacità di guardare il mondo e l’Altro in termini etici, che non ha nulla a che vedere con un mondo visto con gli occhi della scienza; sono due mondi differenti, non è uno più giusto dell’altro, come modo per garantire all’etica una sfera indipendente dalla scienza.

La bontà è connessa alla conoscenza, non alla conoscenza impersonale e quasi scientifica del mondo ordinario, qualsiasi esso sia, ma a una percezione raffinata e onesta di quello che è davvero, un discernimento giusto e paziente e un’esplorazione di ciò che si trova di fronte, che è il risultato non semplicemente di aprire gli occhi, ma di un genere senz’altro perfettamente familiare di disciplina morale.”

Iris Murdoch riprende il concetto di attenzione da Simone Weil che lo definisce come azione non agente –  una delle fulminanti intuizioni della filosofa francese. Si potrebbe definire come un’azione che non si ripercuote sull’altro in modo invasivo, ma che mi porta davanti all’Altro, in relazione con l’altro.

Come agenti morali dobbiamo provare a vedere nel modo giusto, a superare i pregiudizi, a controllare e frenare l’immaginazione e dirigere la riflessione” – lo sguardo è oggettivo nel senso morale, ma non neutrale – nel senso che guarda l’altro con amore, con senso di giustizia, come altro essere umano simile a sé. L’immaginazione nel contesto della Murdoch ha un’accezione negativa, perché riguarda le pre-concezioni dell’Ego nei confronti del mondo circostante e dell’Altro in modo particolare.

L’ascolto si può considerare come l’attenzione, come uno sguardo morale, come sono state teorizzate da Iris Murdoch e Simone Weil.  Uno sguardo partecipativo, non neutrale.

Ascolto è porsi nei confronti dell’altro con giustizia e partecipazione – se non vogliamo usare la parola amore – riconoscendo che quello che esprime l’altro ha un’importanza pari al nostro discorso. Nel contesto della formazione anche di più.

Perché credo che non si possa considerare la formazione come un trasferire dall’alto, da una posizione di potere del sapere. È molto più interessante considerarla come una forma di condivisione dei saperi e come modo di farne nascere di nuovi.

Negli anni 50 per migliorare e per comprendere la relazione medico paziente Michael  Balint decide che non può insegnare nel senso classico del termine; può fare il coordinatore di un gruppo, può facilitare lo scambio che parte da un caso portato da un partecipante.  Balint così introduce un sistema di formazione completamente nuovo. Non c’è più una figura che insegna, ma solo un coordinatore, un facilitatore. L’apprendimento si basa sul sapere condiviso dei partecipanti, sullo scambio e non più sull’apporto di una figura terza.

«Ci incontravamo ogni settimana per due ore. E Michael iniziava con ‘C’è un caso?’. Cosa che significava: c’è qualcuno che vuole parlare di un paziente ‘difficile’? Ogni volta che qualcuno di noi rispondeva alla sfida, Michael prevalentemente stava in silenzio o poneva domande. Non c’era problema clinico di cui non si potesse parlare». Così racconta quanto accadeva in quel gruppo uno dei primi partecipanti.

I gruppi Balint nascono nell’ambito delle professioni di cura: medici, infermieri/e insegnati, ma con Luigi Pagliarani negli anni 80 e i suoi allievi, si estendono anche alla vita professionale delle aziende. Capo-collaboratore, commerciale- cliente; cliente- consulente sono altre applicazioni di questo metodo non didattico in senso tradizionale

In questo approccio l’ascolto è fondamentale – è tutto. Ma non è facile. Un caso recente mi ha messo in grande difficoltà. Si tratta proprio di un progetto di autocasi sulla relazione cliente- consulente, dove i consulenti sono consulenti di comunicazione. È un mestiere che ho fatto anch’io e, forse, anche per questo mi sono trovato in grande difficoltà. Facevo fatica ad ascoltare. La mia mente cercava di saltare subito trovare delle soluzioni. I casi dei partecipanti erano come treni che mi investivano ad altissima velocità. E io come difesa mi chiudevo sempre più in me stesso pensando cosa avrei fatto io in quei casi. I casi ruotavano attorno a me, e non io attorno ai casi, come dovrebbe essere quando ci si trova in un buon ascolto. L’ascolto spiazza; destabilizza.

Una signora elegante e ben curata, incaricata di svolgere la funzione di osservatrice di un gruppo di pazienti, ha riportato che dopo l’ascolto intenso dei partecipanti “si era sentita tutta spettinata”.

L’ascolto ci mette in disordine; questa condizione va accettata per entrare in relazione con gli altri. Ha fatta l’esperienza come scrive Iris Murdoch che “Più si è consapevoli della distinzione e della differenza degli altri, e più si riesce a capire che un’altra persona ha bisogni e desideri propri altrettanto impellenti dei nostri e più è difficile che si tratti gli altri come una cosa”. Questo esercizio in apparenza semplice, ma tutt’altro che banale, non mi riusciva.  L’attenzione – scrive sempre Iris Murdoch – è diretta, contrariamente a quanto avviene di solito, verso l’esterno lontano dal sé che riduce tutto a una falsa unità verso la grande e sorprendente varietà del mondo. Lontano da quello che lei definisce “proliferazione di immagini e scopi abbaglianti ed egocentrici” – di cui io ero vittima.

Il tema era che il mio cliente mi aveva fatto una dichiarazione di grande fiducia: “grazie al fatto che tu nel campo della comunicazione hai fatto sia il cliente all’interno di multinazionali e il consulente in agenzie di comunicazione, il progetto funzionerà sicuramente”. Questa dichiarazione di fiducia mi aveva gratificato ma mi aveva anche reso prigioniero di “scopi abbaglianti ed egocentrici” – la mia prima preoccupazione non era l’ascolto del gruppo, ma realizzare quanto la fiducia del mio cliente mi chiedeva.  Ero a caccia di una conferma della mia capacità, piuttosto che ascoltare i casi che venivano raccontati.  O meglio nella mia mente i casi erano funzionali a dimostrare quanto fossi bravo.

Dopo un po’ di incontri in cui ero in “palla” – sono riuscito a recuperare con grande fatica.  Sono riuscito a recuperare l’esperienza di “decentramento” che l’ascolto richiede.  È una testimonianza come l’ascolto non sia banale; come le nostre attese e bisogni di conferma possano diventare una barriera insormontabile. L’ascolto è un allontanarsi da sé dalle proprie sicurezze e certezze, un viaggio che ci mette in disordine, ma solo se accettiamo di farci “strapazzare” dalle parole dell’altro possiamo crescere insieme all’altro.

Mi viene in mente un viaggio in pullman in Messico fatto a 20 anni. Un viaggio senza aria condizionata, su sedili scomodi, stretti gli uni sugli altri, con polli e galline, dove l’altro ti “invade” – ma è l’unico modo per provare a capire di più di un popolo di un paese che, se stai nella tua auto con l’aria condizionata, non potrai capire. Questo è l’ascolto vero.

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